I BUONI COLORI DI UNA VOLTA DI SERGIO PAOLO DIODATO – EDIZIONI MENABO’ 2010
I BUONI COLORI DI UNA VOLTA
di Sergio Paolo Diodato
Ricettario fotografico per conoscere e fabbricare pigmenti, leganti, vernici e materiali artistici antichi, direttamente dai trattati medievali.
Edizioni Menabò 2010, Via Roma 88, 66026. Ortona – CH
http://www.dabruzzo.it/
Testo di Vittoria Biasi – All Texts are 1F mediaproject copyright. All Rights Reserved.
Nell’opera I buoni colori di una volta, l’autore Paolo Sergio Diodato propone un attraversamento delle proprie esperienze di restauratore di sculture lignee policrome e dorate, di dipinti su tela, su tavola, offrendo una sorta di iniziazione al mondo dei pigmenti, ai segreti alchemici della storia della pittura. Il colore è la soglia visibile con cui il sentimento, il pensiero compongono il linguaggio. Ogni colore è la lingua estrema di un percorso e l’autore narra ogni passaggio, con riferimenti, citazioni a particolari origini o trasformazioni. Il colore ha carattere di universalità perché presente in tutte le culture, che si differenziano e si connotano per un valore simbolico privilegiato. Un’eccezione in tal senso è costituta dal bianco la cui supremazia è riconosciuta da tutti i popoli, che ne riconoscono il senso di origine.
La ricerca sul colore, assunto nella sua solitudine, connota l’arte del Novecento. L’astrazione e la monocromia pongono l’artista di fronte al mistero del linguaggio cromatico e della ricerca di una corrispondenza tra l’utilizzo e il pensiero. Sublime in tal senso è lo studio di Wittgenstein, che pone in relazione logica e concetti. Entrambi giocano intorno ad un qualcosa d’inspiegabile. Non conforta Wittgenstein la scoperta di una corrispondenza tra il mondo, il linguaggio e il pensiero. Il filosofo conclude il Tractatus con la frase “ su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.” Il colore nella sua essenza rimane il grande mistero!
Lo studio analitico di Paolo Sergio Diodato è una rimeditazione storica sui materiali, sulle attrezzature per ottenere colori, pigmenti, leganti.
I pigmenti, le resine, i leganti, le cere, le lacche sono studiati nei confini racchiusi tra cielo, terra, tradizioni, religioni e miti, guidati dalla luce della religiosità cattolica, dei testi sacri, delle tradizioni. Il colore, Il buon colore di una volta, è il risultato di un’alchimia, di una ritualità di gesti, di attrezzi per raggiungere il senso mistico.
Il colore deve attraversare il procedimento della mente, avvicinarsi all’idea, divenendo il ponte, il media tra concezione, percezione, progetto, essenza o spiritualità del reale e la sua trascrizione. La composizione del colore è una pratica, un rituale che deve garantire un raggiungimento. Le ricette utili sulle Arti pittoriche e plastiche da tramandare sono state raccolte in scritti preziosi, libri fatti a mano, arricchiti di dorature, immagini, decorazioni che avevano il compito di istruire i semplici sulla religione. Come annota l’autore, le immagini dipinte erano la Bibbia dei poveri. E in questa pagina l’autore riporta un’emozionante nota sul significato dei termini catecheo e persona. Il primo, tra gli altri significati, vuol dire risuonare o far risuonare la Parola di Dio. Il termine persona deriva da per-suonare. Ogni artista, attraverso il colore, il segno, dovrebbe raggiungere la condizione interiore per divenire il passaggio prezioso, unico e irrepetibile, originale di un quid che risuona, vibra nell’altro, come uno strumento musicale.
La concezione sul colore, sentita da Diodato, è la lente attraverso cui guardare la pittura e la sua storia. L’autore propone il colore nella sua alchimia, con la disposizione del rispetto per i passaggi di trasformazione della pietra o del minerale in formula, in pigmento. Il pittore deve “donare” al linguaggio le vibrazioni sconosciute, racchiuse nel colore che devono giungere allo sguardo dell’altro.
L’opera I buon colori di una volta è strutturata in sette capitoli, che sembrano organizzati come un tavolo di lavoro, su cui sono disposti leganti, pigmenti di origine vegetale, minerale, artificiale, coloranti e attrezzi, supporti evocativi di storie.
Diodato compie un’interessante narrazione sugli attrezzi necessari a preparare, misturare, sciogliere, legare le terre. Una particolare attenzione è dedicata alla pergamena e al modo di ottenerne una pregevole, perfetta per la scrittura e per le miniature. Questa è supporto e simbolo. L’agnello è per eccellenza l’icona del sacrificio assunta nella simbologia cristiana. La sua pelle diviene la pagina su cui si deposita la scrittura, la luce della salvezza. Il nome risale all’antica città di Pergamo, che nel II secolo a.C., come scrive Plinio il Vecchio nella sua Naturalis historia, fu un centro importante per la produzione e diffusione di pergamena in sostituzione del papiro. Si ha notizia dell’uso della pergamena già nel V secolo a.C.. La pergamena più pregiata, ottenuta dai feti di bovino, era utilizzata per breviari e libri destinati a personaggi importanti. La pergamena ottenuta dalla pelle di scrofa si utilizzava per realizzare i corali per i monasteri dove i monaci leggevano i salmi almeno sette volte al giorno, in relazione al cambio di luce: avevano un formato che rendeva leggibile la scrittura in lontananza.
Tra gli strumenti indispensabili al pittore vi è la conchiglia. “L’esperienza insegna, dice Diodato, che, in alternativa alla conchiglia dei pittori, le conchiglie marine coll’interno liscio e bianco, come le fasolarie, sono preferibili a quelle a coste, cioè rigate, come sono ad esempio i ‘cuori’, detti anche ‘noci di mare’, e le cappe sante”. Una storia di bianche simbologie guida e accomuna strumenti pittorici, supporti, colore e religione. La conchiglia partecipa della ritualità pittorica facendo lei stessa da legante tra molte religioni e come simbolo del senso di scambio tra i beni, tra i processi vitali. Nel Battesimo di Gesù di Piero della Francesca, Giovanni Battista versa l’acqua con la capasanta, che accompagna il rito della trasformazione: le storie dei popoli partecipano alla realizzazione dell’opera. Il concetto di rituale è un aspetto affascinante dell’esperienza del colore e della religione.
Nel procedimento creativo del colore, il legante ha un ruolo importante, poetico: costruisce il legame tra la terra e il cielo, tra la materia e la luce. Un legante particolare è l’olio di lino, che si ricava dai semi. Nelle note di riferimento l’autore riporta un brano dell’opera Iside e Osiride (4) di Plutarco in cui il filosofo greco scrive che “i sacerdoti portano vesti di lino per il colore che la pianta dispiega nel suo fiorire, somigliante all’azzurro etereo che cinge il mondo”. L’uso del lino è celebrato fin dall’antichità e il Pentateuco è ricco di riferimenti ai candidi vestiti dei sacerdoti: Giuditta seduce Oloferne indossando un vestito di lino. Il trattato di Diodato presenta una doppia lettura con un sottotesto costituito da note di approfondimento, di ricerca filologica, antropologica, chimica, storica.
Le materie leganti costituiscono il film pittorico, proteggono i granelli di pigmento dalla reazione che potrebbero avere con l’aria, consentono la trasparenza e la fluidità del colore. La colla animale, come quella di coniglio, la colla arabica, lo zucchero o il tuorlo d’uovo, il sangue, la cera sono leganti che determinano la tecnica pittorica. Nell’arte contemporanea alcuni materiali, come la cera o il sangue, sono il linguaggio con cui l’artista celebra la propria poetica. Le materie leganti collegano le tradizionali tecniche pittoriche all’arte contemporanea. Materie accessorie erano utilizzate dagli artisti, come l’ammoniaca derivante dalla fermentazione e decomposizione delle urine, delle felci, delle alghe marine. Nel saggio I sortilegi (in Sortilegi amorosi, materassi a nolo e pignattini, Processi inquisitori ali del XVII secolo fra Bologna e il Salento, Carrocci ed., Bologna 2008, pp. 119 – 170), Gian Luca D’Errico cataloga i sortilegi amorosi secondo l’uso di sostanze organiche e “liminari, cioè, tra la rigenerazione e la distruzione. “Il sangue, scrive D’Errico, è in primo luogo anima hominis, padre di tutti gli umori, pascoli della vita, ma la sua perdita e il suo versamento sono al tempo stesso legati all’immagine della dissoluzione e della morte.” Il sangue ha il potere di legare e di attirare e allora è pensabile come transito dalla sfera del desiderio amoroso a quello spirituale-religioso.
Altri elementi organici sono proposti come aggrappanti per la doratura su pergamena nel De arte illuminandi, citato da Diodato, un meraviglioso trattato di autore ignoto e di età gotica conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli e pubblicato nel 1975 con traduzione a fronte e note dal Prof Franco Brunello.
All’interno dell’opera I buoni colori di una volta, Diodato struttura un sistema d’informazioni per ottenere il colore, nell’intento sperimentale, di indagine e scoperta per il restauro, per articolare un profilo storico e antropologico dei periodi artistici. Il corredo bibliografico traccia una mappatura degli elementi formativi, che connotano i momenti storici e che possono essere messi al confronto con ricettari di altra natura. “Nei medicamenti proposti dalla farmacopea ufficiale, scrive D’Errico, come nelle procedure messe in atto da esorcisti di quel periodo non mancano terapie, soprattutto a base di erbe, che avrebbero potuto figurare nelle confessioni estorte a una strega”. Albano Biondi, nel saggio La signora delle erbe e la magia della vegetazione, (in Cultura popolare dell’Emilia – Romagna, medicina erba e magia, Silvana, Milano 1981, p. 196), scrive che “per un lunghissimo periodo della cultura terapeutica le erbe … sono state oggetto d’interesse interprofessionale. Intorno ad esse si sono mosse tre professioni, quella del guaritore popolare, quella del medico, quella del religioso[…]”. In questo ambito si può far rientrare la compilazione pittorica.
La pratica delle dorature che Diodato esplora attraverso la disamina del De arte illuminandi, è dettata da un rituale simile a quello dell’accomodamento della valeriana riportato da D’Errico. Questi inoltre riferisce di compilatori dei libri segreti, ricettari che spaziavano attraverso campi e discipline del sapere (alchimia, cosmetica, medicina, magia), con conoscenza dei rapporti di simpatia e empatia tra gli elementi. Lo stesso rapporto di simpatia ed empatia lo ritroviamo in un passaggio tratto del De arte illuminandi citato da Diodato:
“E’ da notarsi che quando siano disegnati sulla cartapecora le lettere, o i fogliami, oppure le figure, nel luogo ove si deve fissare l’oro, è necessario ungere con un pezzetto di colla cervona o di itticolla in questo modo: cioè inumidendo in bocca, a stomaco digiuno o dopo la digestione, un pezzetto di quella colla, finché sia rammollito; e così inumidendolo spesso, ungi con esso il luogo su cui si deve fissare l’oro, perché la cartapecora sarà resa più atta a ricevere l’asiso […]”
Volendo continuare a cogliere il legame tra l’arte pittorica e il permanere di alcuni riti nel quotidiano, possiamo ricordare la resina mastice, secrezione naturale di un arbusto, il Lentisco, pianta tipica delle macchie mediterranee. Famosa fin dall’antichità, il nome mastice fa pensare a una colla resistente, citata da Pirandello in La giara.
Diodato inserisce le esperienze e i segreti del proprio rapporto con l’alchimia del colore in un ampio panorama storico. Consulta la Naturalis historia di Plinio il Vecchio e il De architectura di Vitruvio. Sono fonti importanti e ricorrenti Il libro dell’Arte di Cennino Cennini della fine del XIV sec. inizi XV, il già citato De arte illuminandi, il Trattato dell’arte della pittura, scultura et architettura della fine del XVI secolo di Gian Paolo Lomazzo, pittore, poeta, scrittore che, divenuto cieco all’età di 33 anni, si dedicò agli scritti sull’arte. Paolo Diodato riporta passaggi importanti che connotano il tempo, secondo gli usi e le migliorie apportate dai pittori nei ricettari precedenti. Interessante in tal senso un capitolo di Lomazzo dal titolo Quali siano le materia nelle quali si trovano i colori, in cui Gian Paolo Lomazzo elenca i colori che si possono trovare in quei tempi e l’alchimia dei pittori veneziani: “ Per acquerella e per disegnare in carta, per il nero vi è l’inchiostro, la pietra tedesca, la terra nera et il carbone del salce, o del roncagino, per il rosso la pietra rossa detta apisso, la quale era usatissima da Leonardo da Vinci, per il bianco il bianchetto, over biaca.”
Tra le possibili letture che la ricchezza dell’opera può suggerire, vorrei cogliere il concetto di percorso che è racchiuso affinché il colore possa realmente esistere per il pittore come linguaggio.
Tra le procedure elencate dal professore Diodato, mi è parso particolare per il valore acquisito nel Novecento, il procedimento della biacca. La biacca, scrive Diodato, nonostante la tossicità, è il pigmento bianco per eccellenza, il più usato di tutti i tempi sulle opere d’arte mobili. Si trova in natura come cerussite, ma fin dall’antichità i pittori la fabbricavano mettendo delle lastre di piombo in un recipiente col coperchio socchiuso, a reagire con i vapori di aceto. I ricettari antichi contemplano l’uso di recipienti di coccio, contenenti piombo e aceto posti nel letame, ma la reazione chimica avviene comunque se l’acido acetico si combina con il piombo e l’anidride carbonica dell’aria. Sulle lastre di piombo si forma una patina bianca che deve essere raschiata e raccolta, poi bisogna macinarla sulla pietra di porfido con un po’ di aceto bianco. In seguito la biacca deve essere lavata e lasciata decantare affinché perda di acidità.
Il pigmento bianco è il risultato di un percorso nell’oscurità, come il diamante è un carbone che nelle profondità ha sofferto la privazione della luce! Il bianco riconduce a quella centralità perduta citata dal professore Diodato in riferimento all’omonima opera di Hans Sedlmayr, relativa alla perdita del centro nell’arte. Kandinsky riconosce la forza e la vita dell’opera, quando questa nasce dal profondo. Come è nata dal profondo l’emozione di Klein vedendo i cieli di Giotto nella Basilica di San Francesco ad Assisi. La visione delle distese dei cieli giotteschi senza nubi sono per Klein un’espressione monocroma, da cui farà derivare la ricerca dell’energia racchiusa già nell’alchimia del colore, del suo blue, International Klein Blue, (IKB).
Concludo con un concetto di Leonid Uspenskij riportato dall’autore: “[…] La tecnica tradizionale, elaborata nel corso dei millenni per la pittura delle icone, comporta una scelta dei materiali che rappresentano la partecipazione il più possibile integrale del mondo visibile alla creazione di un’icona[…].” Il mondo del legno, degli animali, dei pigmenti è assunto allo stato naturale e, attraverso un rito di purificazione, è abilitato a prendere parte del culto, ad essere parte della rappresentazione.
In Oriente, i maestri sono chiamati tali per la conoscenza delle polveri, delle materie, per la capacità di fare da soli il necessario. La lettura dell’opera di Diodato ha dato un volto di autenticità ai miei pensieri, al mio studio e ho sentito che il concetto di maestro è ancora tra noi, è tra i buoni colori di una volta.
Vittoria Biasi
Storica dell’arte, critico e curatrice internazionale
In copertina: dall’affresco raff. San Luca evangelista, eseguito da Andrea Delitio (secolo XV) Duomo di Atri (TE).
1 Comment
Ho molto apprezzato questo volume frutto di un grandissimo lavoro di ricerca e di notevole esperienza e conoscenza dell’arte medioevale, un grazie all’autore Sergio Paolo Diosato.