INTERVISTA A STEFANO PESCE – CRISI, LA PRATICA È PERFETTA
Intervista a Stefano Pesce, autore e interprete con Diego Ribon di
«CRISI»
«LA PRATICA È PERFETTA»
(regia di Gabriele Tesauri)
di
Gian Luca d’Errico
Dal 16 al 18 maggio 2017 è stato portato in scena, al Teatro Arena del Sole di Bologna, lo spettacolo Crisi. La pratica è perfetta, interpretato da Stefano Pesce, autore della sceneggiatura, e da Diego Ribon, Gabriele Tesauri alla regia, Donatello Galloni responsabile delle scene e Daria Lo Sapio per i costumi. Uno spettacolo accattivante e provocatorio in tutti i sensi, per il tema attualissimo che affronta, quello della crisi che la nostra società sta attraversando su tutti i livelli, e per il modo in cui lo racconta. La scena è dominata da due colleghi di lavoro: Opp(ortunità) e Ost(acolo), due impiegati che svolgono il classico lavoro ripetitivo, con turni prolungati e alienanti. Il tema dello spettacolo ruota attorno alla reazione dei due impiegati posti di fronte a un imminente trasferimento della loro sede lavorativa. In particolare Ost, entra in una profonda crisi esistenziale e cercherà in ogni modo di manomettere la pratica del trasferimento all’insaputa di Opp. Dramma e comicità sono lo sfondo che dominano le bizzarre iniziative di Ost (e di Opp che cerca di contenerlo) per raggiungere il proprio obbiettivo. Lo spettacolo fa sorridere e, a tratti, ridere, ma inevitabilmente porta a riflettere.
Stefano Pesce, attore dalla solida formazione teatrale – diplomato alla Civica Scuola Paolo Grassi di Milano – e noto ormai al mondo dello spettacolo, ha preso parte a numerose fiction televisive come RIS, Incantesimo 4, Distretto di Polizia, oltre ad aver lavorato per il grande schermo sotto la direzione di Vincenzo Salemme, Carlo Verdone e Luciano Ligabue. Crisi rappresenta il primo esordio come autore teatrale. Dopo l’evento bolognese, ho avuto l’occasione di incontrarlo e di analizzare alcuni momenti della pièce.
G.d’E. Caro Stefano, grazie per la disponibilità. Per prima cosa vorrei chiederti cosa è successo alla tua sceneggiatura. Ci hai confidato che era nata per portare sul palco un monologo, ma alla fine si è trasformata in un testo per uno spettacolo interpretato da due attori. Lo stesso regista, in virtù di questa conversione, ha “stravolto” l’impianto iniziale della tua idea. Generalmente chi scrive un testo diventa, a buon ragione, un po’ geloso del proprio lavoro, tu invece hai accettato tutte le modifiche apportate con grande disponibilità. Ci puoi dire qualcosa su questo cambio di rotta?
S.P. Sì, è molto semplice. A un certo punto ho preso coscienza che per essere veramente comunicativo, ossia per riuscire nell’intento di fare arrivare il “mio” messaggio, il contenuto di ciò che avevo pensato nella sceneggiatura, la formula narrativa del monologo era inadeguata. La tecnica teatrale del monologo può essere di altissimo livello artistico, si pensi alle performance di Marco Paolini, ma il mio obiettivo era di arrivare allo stomaco del pubblico in una prospettiva dialettica, e l’incontro con Diego Ribon e Gabriele Tesauri si è configurato come un’opportunità per dare nuova vita allo spettacolo. Fin da subito ho capito che la trasformazione in atto permetteva di realizzare un duplice binario comunicativo: da una parte, ho avuto il piacere di condividere il palco con un altro attore, con grande curiosità nel vedere come Diego interpretava la mia proposta teatrale, dall’altra si è realizzata la dimensione dialettica con il pubblico cui tengo molto.
G.d’E. Volendo citare i grandi maestri cui vi siete ispirati, si potrebbero fare tanti nomi, a partire da quelli più contemporanei e meno teatrali come Marc Augè, Slavoj Žižek o Amalia Signorelli, tuttavia ogni epoca ha la sua crisi. E quella di oggi è sempre diversa da quella di ieri, dunque è inverosimile pensare alla grande lezione dei maestri del passato per raccontare l’attuale dimensione critica, che bisogna inevitabilmente toccare con mano. Come si fa a coniugare l’importante tradizione teatrale di cui disponiamo con le nuove dimensioni esistenziali che stiamo attraversando?
S.P. Sicuramente ho dovuto pensare a nuove categorie rappresentative, attingendo molto dalla nostra tradizione teatrale (in senso globale), ma rivisitandola in una prospettiva più contemporanea. Ho indagato il fondale della crisi: guardare con la “pancia” il nostro paese incasinato, per poter mettere in atto un transfert. Sono partito da ciò che si può osservare dall’esterno con lucidità, per poi introiettarlo nell’animo, ispirandomi in parte alla figura di Camiel Borgman, sogno, demone, allegoria o incarnazione delle paure, non si sa. Posso parlare di un’esperienza antropologica, si tratta di una scelta di vita che mi coinvolge personalmente, sul palcoscenico non vedrete solo un attore ma una persona socialmente e umanamente sensibile a tutto ciò che stiamo vivendo. È la dimostrazione vivente (e teatrale) di come una crisi, da fenomeno “esterno” possa arrivare ad attanagliare l’animo più intimo di tutti noi. Il risultato è spesso la solitudine in cui ci arrochiamo, una solitudine che aumenta il senso della crisi e che disarma ogni nostro tentativo di reazione.
G.d’E. Lo spettacolo si configura come una performance teatrale, ma offre un gradevole scenario nel campo delle arti visive. Si può assistere a un divertente evento drammaturgico e allo stesso tempo sembra di visitare una mostra di Mario Merz. Gli oggetti “poveri” portati in scena hanno una grande forza simbolica, una forza che viene incrementata dall’uso, dall’interpretazione che ne viene data. Ci sono delle scene, inoltre, in cui sembra di vivere ai confini della realtà, pur non volendo anticipare i contenuti dello spettacolo, credo che sia il frutto di un’esperienza molto personale, a conferma di quanto hai detto prima. Anche perché non si capisce come si fa a immaginare l’espediente dell’olio accanto al letto per friggere i pesci che terrorizzano la bambina di notte mentre dorme. Bisogna attingere dalla realtà. Quale esperienza personale ha ispirato il tuo testo?
S.P. Non penso che si possa parlare di una particolare esperienza, direi che il discorso è più complesso, che coinvolge me come persona e attore. In fondo la mia è stata una forma di reazione, una questione di sopravvivenza: teatralizzare la propria vita significa in un certo senso esorcizzare tutte le ansie e le paure della nostra quotidianità. Devo dire che il confine fra professione e dimensione personale è veramente liminare. Poi l’aspetto del gioco è fondamentale, l’episodio dei pesci fritti appartiene a una circostanza divertente in ambito familiare, ma è fondamentale trasmettere questo aspetto; tendiamo a rappresentare (e a enfatizzare) le paure o gli aspetti negativi, dimenticandoci la fantasia e l’ironia che attraversano la nostra vita, e che spesso ci offrono soluzioni “inconsuete”che funzionano benissimo.
G.d’E. Il messaggio dello spettacolo, in fin dei conti, è molto positivo. Ti lascia un certo sollievo interiore, però se poi guardiamo in faccia alla realtà, con tutte le crisi del caso, sorge il sospetto che si tratti di una proposta di speranza, quasi utopistica, scollata dal vissuto reale. Parli di trasferimento del posto di lavoro come “opportunità” per cogliere e interpretare positivamente il cambiamento, da non vivere in modo negativo, come un “ostacolo”. Spesso questo cambiamento, nella realtà, corrisponde alle numerose casse integrazioni o alla mobilità a cui sono sottoposte da tempo molte categorie di lavoratori e lavoratrici, magari con famiglie da sostenere e un mutuo sulle spalle, allora interpretarlo come un’opportunità può essere veramente difficile. Non me ne volere.
S.P. Sì, ho capito cosa intendi dire. Però la questione andrebbe posta in altri termini. Sicuramente il nostro spettacolo non si può considerare una ricetta per risolvere il problema “crisi”, vuole proporre una prospettiva diversa, che ci può salvare sul piano umano. Qual’è l’alternativa nel vedere nella crisi un’opportunità? L’alternativa spesso è il pensiero autodistruttivo, su tutti i fronti; si imbocca un circuito pericoloso dove prevale il non-senso della propria esistenza. Di fronte ad alcuni cambiamenti siamo oggettivamente inermi, ma la possibilità-capacità di trovare dentro noi stessi delle soluzioni intermedie che ci permettono di non chiuderci è sinonimo di salvezza. Allora un trasferimento può essere un buon motivo per cambiare la nostra prospettiva, cogliere il cambiamento come opportunità poiché, come ho detto prima, l’alternativa spesso corrisponde alla rinuncia.
G.d’E. Generalmente chi pone i quesiti, in modo più o meno consapevole, non sempre interroga l’interlocutore, ma fa domande a se stesso, cerca in fondo le proprie risposte. Allora mi viene da chiederti una cosa strana. Esiste a oggi una domanda che non ti è stata mai posta, ma che avresti piacere nel soddisfare?
S.P. Sì. “Sei riuscito tu a superare la tua crisi?” Ci sto riuscendo con tutte le mie possibilità di essere umano. Ho cercato di aprire la mia vita, dai sentimenti alle cose più banali. Per certi versi ho vagato, in cerca di qualcosa che non conosco bene, ma ho avuto e ho affetti vicini molto importanti. Da qui nasce il mio profondo desiderio di parlare alla gente per puntare al cuore, non è solo una questione di performance teatrale. La comicità è uno strumento per far digerire a tutti – me compreso – il malessere della realtà contemporanea che stiamo vivendo e in fondo noi, sul palco, siamo solo due pagliacci con le bretelle gialle.
G.d’E. Il 17 maggio, al termine della seconda replica, si è tenuto un incontro con il pubblico piacevole e stimolante. Il motto della serata era: “finché c’è crisi, c’è speranza”. Mi ha fatto sorridere molto, ma …
S.P. …. ma, se vogliamo è un modo sarcastico e per certi versi molto attuale per ricordare e ricordarci che nessuna “crisi” deve o può negare a tutti noi il diritto di sognare.
Gian Luca d’Errico
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