LA MALACARNE , LUCA CALO’, LES FLANEURS EDIZIONI
Luca Calò, La malacarne, Les Flâneurs Edizioni, Bari, 2018, pp. 77.
di Gian Luca d’Errico
In un recente volume curato da Fernanda Alfieri e Vincenzo Lagioia dal titolo inequivocabile, Infami macchie: sessualità maschili e indisciplina in età moderna (Viella, 2018), si cerca di analizzare la dimensione e la “costrizione” della sessualità maschile – con tutte le conseguenze che tale condizione può comportare sia in ambito sociale che nella sfera personale – in chiave storica, in particolare, nella società d’Antico Regime. Parte degli spunti a cui si sono ispirati i curatori del volume si rifanno alle tesi “provocatorie” di Alain Corbin pubblicate nel saggio Le sexe en deuil et l’histoire des femmes au XIXème siècle del 1984, secondo cui gli uomini avrebbero subìto una storica sottrazione del diritto al dolore, costretti nella gabbia disciplinante della virilità, che zittisce le manifestazioni emotive connotandole come “femminili” quindi inaccettabili, innaturali, degne di riso. Luca Calò, giovane scrittore salentino, sembra riproporre con il suo ultimo libro, La malacarne, le “antiche” problematiche sottese alle pulsioni interiori della persona e le aspettative che la società impone, o meglio le rigide griglie morali su cui sono costruite le categorie sociali di genere “uomo-donna” a cui è arduo sottrarsi. Le difficoltà possono essere esponenziali se vissute in contesti problematici dove povertà, disagio e solitudine accompagnano il vissuto umano – e spesso disumano – nel susseguirsi dei giorni, delle voci, dei pregiudizi dell’occhio vigile della comunità, una comunità che non risparmia nessuno quando deve condannare. Luca Calò sceglie infatti la Napoli dei quartieri spagnoli, dei palazzoni della Sanità per raccontare una storia che potrebbe essere quella di tante o di tanti; lo fa utilizzando anche il linguaggio vernacolare, il napoletano, per rendere ancor più tangibile la dimensione “vera” di una vicenda che non si nutre della sola fantasia. Formalmente suddiviso in due parti, Annita Sonnino. La moglie e Alfredo Sonnino. Il marito, di fatto si tratta di un intreccio di storie individuali che non rappresentano il semplice sottofondo di quella che si potrebbe considerare la trama principale del libro, ma diventano parte essenziale di tutta la narrazione. Annita, il figlio appena nato Nino, le sorelle Claudia e Grazia, la madre Concetta, sono tutte figure che hanno un ruolo estremamente significativo per far comprendere – come un contraltare – l’omosessualità, e le problematiche a essa correlate, di Alfredo, il marito di Annita e padre di Nino. Allo stesso tempo le storie di tutte queste donne sono vicende paradigmatiche di un declino irreversibile, di sogni sfumati, abbattuti da una realtà cruda come il dialetto che parlano. E lo stesso discorso vale per Alfredo, per sui i genitori, per i fantasmi di un ragazzo, poi uomo che, come tanti altri, porta con sé un ruolo maschile imposto dalla società, volente o nolente, e che si trascina dietro come un peso, quello stesso peso che diventa un macigno per la moglie Annita, diventa per lei follia, depressione. Luca Calò dipinge un quadro molto complesso e realistico dei drammi che si celano dietro la violenza di una società ottusa, omologata e omologante, dove la menzogna, la simulazione e la dissimulazione divengono gli unici strumenti a disposizione dell’umanità per sentirsi veramente e intimamente più umani. Luca Calò dipinge un quadro, in quanto riesce, con la sua scrittura, a far sentire le voci degli interpreti, le loro ansie, le paure e i rari momenti di piacere.
Gian Luca D’Errico – gennaio 2019
No Comment